A cura di di Alda Carmela Di Mauro, Concettina La Piana e Manuela Mangano
Questo articolo è stato pubblicato il 6 marzo 2012
Il progetto di intervento psicologico, per pazienti affetti da malattie reumatiche croniche autoimmuni, nasce nel Marzo 2010 all’interno dell’U.O.S. di Reumatologia dell’Ospedale Vittorio Emanuele. La necessità di attenzionare gli aspetti psicologici insiti nelle patologie reumatiche, espressa dal dottor Rosario Foti, responsabile del U.O.S. di Reumatologia, è stata accolta dalla dottoressa Liliana Gandolfo, responsabile del Dipartimento di Salute Mentale 4 del Distretto CT 2 dell’ASP 3 di Catania. Questa collaborazione ha consentito la stipula di una convenzione che permette tutt’oggi di garantire un intervento multidisciplinare ai pazienti afferenti al reparto di reumatologia.
La programmazione dell’intervento psicologico è stata affidata al dottor Giuseppe Raniolo, dirigente psicologo presso l’ASP 3 di Catania e didatta dell’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (I.I.P.G.). Alle scriventi, psicologhe e specializzande in psicoterapia presso l’I.I.P.G. di Catania, è stato affidato il ruolo di referenti del progetto.
Nasce così, quattro anni fa, il progetto AMA, Approccio Psicologico alle Problematiche delle Malattie Reumatiche Croniche Autoimmuni.
Il nome, “progetto AMA”, prende spunto dall’acronimo dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto. Quest’ultimo si definisce come: “l’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere, recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità”. In tali gruppi i pazienti ritrovandosi in una posizione paritaria possono confrontarsi e sperimentare nuove soluzioni per migliorare la propria qualità di vita.
Dai primi incontri con queste donne si è reso necessario, innanzitutto, apprendere gli innumerevoli aspetti coinvolti nella patologia, che portano le pazienti ad un sempre maggiore isolamento e ad una chiusura emotiva.
Dalle trame dei racconti emergeva sempre più la necessità di modificare l’obiettivo dell’intervento nel recupero di una dimensione relazionale evidentemente compromessa dalla malattia. E’ nata così l’urgenza di una trasformazione: da AMA come metodologia di intervento ad AMA come imperativo! Utilizzando una matrice psicodinamica per gli interventi attivati.
Nonostante le difficoltà che il reparto impone, soprattutto in termini di spazi utilizzabili per le pazienti, “il gruppo del mercoledì” è stato comunque attivato. La mancanza di un setting adeguato non ha scalfito la possibilità di incontrarsi.
La nostra presenza in reparto, con cadenza settimanale, ha funzionato come un “enzima psicologico” capace di innescare le dinamiche della dimensione relazionale tra le pazienti. Inizialmente gli argomenti discussi in gruppo si riferivano esclusivamente alla patologia, all’attesa prolungata prima di ricevere una diagnosi precisa e alle difficoltà che quotidianamente le pazienti affrontano; il nostro esserci ogni mercoledì ha permesso loro di prendere coscienza della possibilità di affidarsi ad una presenza stabile nel tempo modificando e facendo emergere altri temi all’interno del gruppo. Era per loro, infatti, impossibile aprirsi con delle figure precarie: la presenza di una patologia che trasmette forti vissuti di precarietà non permette di sopportare altra precarietà.
Pian piano i temi del gruppo si sono spostati dall’area della malattia ad aree più profonde in cui erano coinvolti i sentimenti ed i vissuti più intimi delle pazienti. Si sono potuti affrontare temi come quello della femminilità, fortemente danneggiata dalla malattia, del dolore, della giovinezza e del tempo che sfumano velocemente senza avere la possibilità di poterli afferrare e controllare.
Le pazienti che fino al nostro arrivo erano barricate dietro al loro star male, in un’isola di dolore e silenzio, grazie al gruppo hanno iniziato a recuperare la dimensione relazionale che era stata fortemente minata dalla patologia. Poter raccontare la propria esperienza, comunicare il modo in cui ognuno affronta giornalmente le difficoltà, riuscire a parlare con delle persone che vivono le stesse emozioni e situazioni, ha permesso alle pazienti di creare un “ponte” che consentisse loro di mettersi in contatto con gli altri e con se stesse. Il reparto si è con il tempo modificato ed ha assunto le sembianze di una comunità; una comunità al lavoro in cui poter condividere le proprie ricchezze e non solo il dolore. Prima dell’intervento in reparto le pazienti non avevano la forza di comunicare con nessuno e sfuggivano ai loro stessi vissuti di sofferenza; il confronto con le altre pazienti, soprattutto con quelle con un decorso più grave, era vissuto come un guardarsi allo specchio e vedere il loro possibile futuro da malata. Tantomeno si poteva parlare in famiglia. La maschera di allegria che le pazienti indossavano prima di uscire dal reparto e tornare a casa, serviva da doppia protezione: nei confronti dei familiari, che non avrebbero potuto sostenere un dolore così grande e persistente; e una protezione per se stesse, dal momento che i familiari comprendevano a fatica i vissuti di chi ha con sé una “compagna di vita” così pesante da dover sopportare.
Dopo l’avvio del progetto, le pazienti hanno iniziato a scambiarsi i numeri di telefono, sono in contatto anche all’esterno del reparto e nei giorni in cui non sono in terapia, riescono a darsi consigli e sono diventate un punto di appoggio l’una per l’altra. Confrontarsi fra loro non è più motivo di sofferenza, le pazienti più gravemente colpite dalla patologia, non sono più tenute a distanza e isolate ma, partecipano al gruppo e sostengono le “nuove arrivate”. Queste pazienti, sono ben accolte dal reparto, sono contenute e rassicurate dalle altre pazienti su cosa fare per affrontare al meglio la nuova situazione.
Da qualche tempo nelle sale delle infusioni sono state appese delle foto in cui sono ritratte le pazienti e l’equipe medica. Le foto sono una grande testimonianza del cambiamento che tutto il reparto ha intrapreso; anche i medici e gli infermieri sono diventati membri di questa comunità.
Il nostro intervento in reparto si è modificato nel tempo; praticare l’esperienza di sé e del gruppo, ha aiutato le pazienti a formulare una richiesta di aiuto, prima impossibile anche da pensare. Al gruppo del mercoledì si sono affiancati gli interventi individuali e le pazienti hanno risposto positivamente alla possibilità di attivare dei gruppi di psicoterapia all’interno della struttura. Se il gruppo ha consentito di far emergere numerosi vissuti, alcuni di questi, come la sessualità, hanno bisogno, infatti, di uno spazio diverso, quello del colloquio individuale.
Oltre al gruppo e alle terapie individuali e di gruppo non mancano le occasioni per sostenere le necessità di tutta l’equipe e dei familiari delle pazienti. Il gruppo del mercoledì è aperto anche agli operatori del reparto e ai parenti; conoscere e confrontare i vissuti e le emozioni delle diverse parti permette di rafforzare il legame relazionale, fortemente deteriorato dalla malattia e poter avere un approccio multidimensionale con le pazienti e con i colleghi in reparto. La formazione di uno spazio in cui si può esprimere e condividere le proprie sensazioni e i propri vissuti, ha contribuito così alla costruzione di un momento di contenimento e di confronto per tutti.
Nel corso di quest’ultimo anno, all’interno del progetto, si è provveduto all’individuazione di un campione di pazienti cui è stata sottoposta una batteria di test costruita ad hoc per la valutazione di alcune dimensioni, prime fra tutte la hopelessness, mancanza di speranza nel futuro e nelle proprie e altrui risorse; e la helplessness, che corrisponde ad un senso di impotenza, di incapacità del soggetto di chiedere aiuto e di ricavare, dall’aiuto dell’altro, un riscontro positivo. Dalle prime somministrazioni si rileva una minore incidenza di queste due dimensioni, in pazienti che hanno partecipato attivamente ai gruppi del mercoledì, a fronte di una maggiore compliance, sentimento di fiducia e speranza, da parte delle stesse pazienti, nella terapia farmacologica seguita.
Questi primi risultati avvalorano quanto già emerso dalle voci delle pazienti e dell’intero reparto.
Il progetto ha creato un’opportunità, uno spazio nel reparto per poter pensare; anche se definita come esperienza limite, condizionata nel suo essere dall’istituzione e dalle difficoltà dell’unità operativa, questa esperienza non ci ha impedito di accogliere, attraverso la necessità di esserci, le voci delle pazienti per condividere ed elaborare insieme il dolore.